Storia di una medicina partigiana

Croce Rossa, armi da fuoco e Resistenza. Il personale sanitario rivestì un ruolo fondamentale all’interno del movimento partigiano. Erano uomini e donne, spesso studenti e studentesse, accomunati dal ripudio del nazifascismo e dall’amore per la Libertà, mossi dalla legge morale e da una lettura sociale del giuramento di Ippocrate, donne e uomini che hanno messo al servizio della libertà e della giustizia il proprio operato. Il loro lavoro era inesorabilmente svolto in clandestinità, con passaggi di persone e mezzi nelle ultime luci prima del coprifuoco, fatta eccezione per quei pochi casi in cui i feriti venivano curati, sotto falso nome, in ospedali pubblici.

Vogliamo ricordare alcune delle loro storie, per restituire la loro memoria come coscienza collettiva, non solo di quegli operatori sanitari che hanno contribuito alla storia della Resistenza, ma anche delle strutture in cui tutt’oggi viene praticata la professione. Per citarne tre: il servizio sanitario partigiano di Bologna; il Niguarda e il Policlinico di Milano, dove il personale medico e infermieristico aiuta i partigiani ricoverati a comunicare con l’esterno, trasmette messaggi, nasconde persone, e se necessario mette a punto terapie per far salire la febbre ai degenti e simulare malattie gravi, così da non permettere ai militari di portarli via; Roma e l’escamotage dei medici per impedire rastrellamento degli ebrei ricoverati al Fatebenefratelli.
Seguono le storie di alcune tra le tante figure che abbiamo voluto ricordare in questa giornata:

OSCAR SCAGLIETTI

Diventato tenente colonnello nel 1942, diviene responsabile del centro ortopedico e mutilati di Bologna. Oltre a offrire cure ai feriti nei campi di battaglia, il centro gestiva un’attività molto rischiosa: dava soccorso e assistenza agli italiani o a coloro che militavano nella Resistenza, perseguitati o ricercati dai tedeschi o dai fascisti. Si producevano, inoltre, ingessature per persone sane in modo tale da metterle in condizioni di non essere fermate e di ottenere la licenza di convalescenza per poter tornare a casa. Non solo, si occupavano di custodire e rifornire di armi, garze e materiale sanitario vario e i partigiani, in vista di una crisi alimentare nella città, riuscirono anche a costruire un’azienda agricola, un deposito sotterraneo d’acqua e un impianto elettrogeno per assicurare la corrente elettrica all’unità ospedaliera .

GIUSEPPE BELTRAME

Affidatogli l’incarico di organizzare il servizio sanitario del CUMER (Comando Unificato Militare dell’Emilia Romagna), si occupò di reclutare dei medici che si aggregassero alle formazioni partigiane e di provvedere ai rifornimenti di medicinali e materiale chirurgico.

LEILA MINGHINI DETTA MIMÌ

Fu un’infermiera che organizzò una fuga tra travestimenti da donna e nascondigli nei montacarichi dall’ospedale di circa 40 detenuti incarcerati nel Padiglione Ponti.

GIOVANNI BORROMEO

Fu un medico dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma. Insieme all’infermiera Dora Fogaroli inventò il Morbo di K, una pericolosa malattia infettiva che avrebbe provocato la tubercolosi. Grazie a questo escamotage convinse le truppe tedesche della Gestapo a non catturare le centinaia di degenti ebrei dell’ospedale.

DOTTOR GATTI

Nel 1943 prese servizio nel carcere di San Vittore, luogo di detenzione di ebrei, antifascisti, lavoratori arrestati a seguito degli scioperi contro l’occupazione nazifascista. Con scarsi mezzi a disposizione si prodigò per soccorrere ebrei e politici, inviare messaggi all’esterno del carcere, somministrare farmaci in grado di far insorgere sintomatologie da ricovero ospedaliero per evitare ai detenuti la deportazione.

FELICE CASCIONE DETTO U MEGU

Celebre autore della canzone partigiana “Fischia il vento”, prese parte alla Resistenza appena dopo la laurea in Medicina, spostandosi sui colli vicino ad Imperia. È aneddotico l’evento del dicembre del 1943, quando Felice e i suoi compagni catturarono due militi della Guardia Nazionale Repubblicana dopo lo scontro di Montegrazie. Felice si oppose all’esecuzione dei due dicendo di aver studiato anni per salvare la vita delle persone, dunque non poteva essere favorevole a dare la morte a dei ragazzi che erano sfortunati per non aver ricevuto l’educazione alla Libertà. I due fascisti non furono giustiziati e Felice ne curò le ferite. Sfortunatamente il 7 gennaio dell’anno seguente il soldato Dogliotti riuscì a fuggire e denunciò la brigata partigiana. Il 27 gennaio 1944, Felice trovò la morte nel tentativo di rioccupare un comando partigiano in cui si erano asserragliate le milizie tedesche dopo la soffiata di Dogliotti. Dopo la sua morte, Italo Calvino si unì alla brigata Garibaldi “Felice Cascione”, riconoscendo in lui un simbolo della lotta partigiana.

Queste storie non solo ci devono far riflettere sul valore politico delle professioni mediche durante la Resistenza, ma si tratta anche di ripensare al nostro ruolo come futuri professionisti della salute nella fase attuale. In questi mesi si è parlato tanto degli operatori sanitari impegnati a combattere l’epidemia come eroi. Più che eroi crediamo ci sia bisogno invece di valorizzare la necessità della medicina intesa come cura collettiva, strumento senza il quale sarebbe impossibile impedire che qualcuno venga lasciato indietro. Restituire alla sanità e agli operatori sanitari una centralità nel proprio ruolo sociale significa ricordare anche il significato di quell’idea di accesso alla salute come universale e gratuita, uniche condizioni a renderlo indissolubilmente complice con l’interesse collettivo.

E dunque no, non crediamo alla vocazione intesa come una chiamata spirituale in grado di farci scegliere una professione, né che questa scelta ci renda automaticamente migliori di altri. Siamo però fermamente convinti che questa professione ci obblighi a ricoprire un ruolo sociale e politico attivo all’interno della comunità. Ci risulta difficile immaginare che chi si occupa di tutelare la salute individuale e collettiva possa sottrarsi dal denunciare e combattere le disuguaglianze, dal rifiutare le discriminazioni, dall’anteporre il benessere comune al profitto.

Torna in alto