Contro il colpo di stato militare in Bolivia

Ancora una volta, in Sud America, il potere militare si impone contro il volere popolare. Il presidente boliviano Evo Morales ha infatti rassegnato le proprie dimissioni su “invito” dei capi della polizia e dell’esercito che hanno minacciato un intervento militare qualora non fosse stata rispettata la loro volontà. Morales era stato riconfermato per la quarta volta consecutiva alla guida del paese in seguito alle elezioni del 20 ottobre scorso. L’opposizione ha da subito contestato il risultato delle elezioni denunciando brogli. Le irregolarità sarebbero state certificate dall’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), in un suo documento [1], innalzato dall’opposizione golpista come stendardo conto Morales e dai media nostrani come sentenza super partes e insindacabile. Tuttavia leggendo il documento dell’OEA (organismo fondato dagli USA e con sede a Washington), si evince che l’ipotesi di illegittimità origina da un assunto quantomeno discutibile. Si legge infatti: “tenendo conto delle proiezioni statistiche, risulta possibile che il candidato Morales sia risultato primo e il candidato Mesa secondo. Tuttavia risulta improbabile statisticamente che Morales abbia ottenuto il 10% di differenza”. La vittoria di Morales non sarebbe dunque messa in discussione, ma si ritiene improbabile lo scarto che ha segnato rispetto al suo avversario. È quindi evidente che i presunti brogli rappresentano solo un pretesto colto dai capi militari e dall’opposizione di destra filostatunitense per interrompere un’esperienza democratica, progressista e di riscossa dei popoli nativi contro i colonialisti di ieri e di oggi. Durante la presidenza di Evo Morales, la Bolivia ha vissuto un periodo di sviluppo economico e sociale inedito nella sua storia. Le politiche di nazionalizzazione e di ridistribuzione della ricchezza messe in atto di a partire dal 2006 hanno portato al dimezzamento della povertà e della disoccupazione ed al quasi azzeramento dell’analfabetismo.  Fra le ultime grandi riforme messe in atto dall’ultimo governo a guida Morales, vi è l’approvazione della legge che sancisce la nascita del Sistema Único de Salud (SUS), il servizio di salute pubblica boliviano pubblico e gratuito che riconosce la salute come diritto universale. Tale provvedimento giunge a coronamento di un piano di investimenti in sanità pubblica, con un incremento della spesa pubblica da 248,4 a 1428,2 milioni di dollari (+474% nel 2014 rispetto al 2004, fig.1)[2], volti a dotare il paese di nuove infrastrutture e servizi. La platea dei boliviani che hanno potuto accedere alle cure mediche è così passata dal 29,8% dei lavoratori salariati del 2002 al 44,4% del 2009[3]. Dall’entrata in vigore del SUS, il primo marzo 2019 (quindi in soli 9 mesi), tale quota ha raggiunto il 51% della popolazione, consentendo l’accesso alle cure ad altri 5,8 milioni di persone che non avevano mai ricevuto assistenza sanitaria. Tale percentuale era destinata ad aumentare ulteriormente, anche grazie alla costruzione prevista di 49 nuovi ospedali e l’assunzione di 8.000 nuovi medici [4]. Come medici e professionisti della salute non possiamo che schierarci contro l’ennesimo tentativo reazionario in Sud America, dalla parte di chi ha sempre lottato per l’uguaglianza, la giustizia sociale e per migliorare le condizioni di salute e non solo della popolazione del proprio paese.

Fig. 1. Spesa pubblica in sanità in milioni di dollari, Bolivia 2000-2014 (UDAPE 2017)


[1] http://www.oas.org/documents/spa/press/Informe-Auditoria-Bolivia-2019.pdf

[2] UDAPE (2017). Bolivia: Estimaciones de Gasto Público Social y Gasto en Infancia, Niñez y Adolescencia.

[3] Bárcena, A. (2014), Protección de la salud como un derecho ciudadano.

[4] https://www.celag.org/la-salud-universal-en-bolivia/

Torna in alto