In questo primo capitolo del nostro lavoro di analisi del servizio sanitario territoriale, percorso nel quale cercheremo di capire meglio le lacune e il funzionamento del nostro SSN, analizzeremo il percorso storico-politico della sua istituzione e il metodo di finanziamento che viene applicato a livello regionale. Ben lungi dal pretendere di essere esaustivi speriamo che, per chiunque lo legga, possa essere un primo passo istruttorio per poter leggere con sufficiente critica le politiche e le proposte in ambito sanitario nazionali e locali. Ringraziamo Sara Vallerani per averci esposto e spiegato dettagliatamente tutta la storia del nostro paese che ha portato al percorso politico e sociale della legge 833/1978.
Per condurre l’analisi comparata dei sistemi sanitari esistenti, è utile considerare diversi aspetti: le istituzioni che prendono in carico e sono responsabili della domanda di cura (lo Stato, le assicurazioni pubbliche o private, etc); i modelli organizzativi dell’offerta di cura (il funzionamento e il ruolo degli ospedali, la medicina generale, etc); i modelli organizzativi delle professioni mediche (figlia del paradigma neo-liberale che domina gli ultimi decenni del XX secolo e si fonda sul presupposto, di matrice economica, del paziente-consumatore).
Da questi elementi è possibile stilare una classificazione dei sistemi sanitari in 3 macro categorie:
1) I sistemi nazionali di salute, ovvero quei sistemi caratterizzati da un servizio pubblico, gratuito e finanziato dalla fiscalità generale, quindi basato sulla capacità contributiva degli individui;
2) I sistemi assicurativi di malattia che coniugano l’offerta di cura pubblica con quella privata, finanziati dalla quota sociale creata dalle casse delle assicurazioni mediche;
3) I sistemi liberali in cui l’offerta di cura è privata e la copertura pubblica per i più vulnerabile è debole, mentre il resto della popolazione ha assicurazioni privare spesso finanziate dalle imprese.
Se da una parte ha il pregio di proporre una semplificazione del complesso universo dei sistemi sanitari, dall’altra comporta la presenza di sistemi sanitari considerevolmente distanti tra loro nella medesima categoria, rischiando di provocare ulteriore confusione. Molto utile è la classificazione di Federico Toth del 2016 che classifica i servizi sanitari in 7 sistemi sulla base di modalità di erogazione e finanziamento e sull’interazione tra soggetti (utenti, fornitori e assicuratori). Secondo quest’ultima il SSN Italiano è un modello finanziato dal gettito fiscale e ad accesso universale. Lo Stato non è solo finanziatore ma erogatore diretto delle prestazioni sanitarie tramite ospedali e ambulatori pubblici. L’intervento pubblico è alto e di conseguenza la scelta dell’utente è, in teoria, bassa.
In questo modo, dall’analisi comparata dei sistemi sanitari europei, emergono alcune tendenze recenti e comuni a diversi sistemi: da una parte si è avviato un processo di decentralizzazione, in particolare di regionalizzazione della sanità, dall’altra è comune l’inserimento di logiche di mercato e di gestione aziendale nell’organizzazione dei sistemi sanitari.
I servizi sanitari così come li conosciamo oggi iniziano la loro strutturazione a partire dalla fine del 1800 con l’intervento del Primo Ministro Otto Von Bismark il quale nel 1877 instaurò un primo modello di sistema previdenziale e tra il 1883 e il 1889 introdusse l’Assicurazione sociale obbligatoria di Malattia (AsdM), l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le pensioni di invalidità e di vecchiaia. Il modello bismarckiano segnò il passaggio da una politica sociale di natura assistenzialistica a un sistema previdenziale di tipo assicurativo, fondato sul diritto individuale alle prestazioni. Lo Stato andava, in questo modo, a sostituire le autorità locali e la Chiesa nella realizzazione delle politiche sanitarie anche per le componenti più vulnerabili della popolazione.
In seguito alla Seconda Guerra mondiale e nel solco del compromesso sociale costruito nei Trenta Gloriosi (1945-1975, crescita economica nel mondo occidentale), in Europa, la copertura sanitaria viene ampliata con l’estensione del modello bismarckiano, quindi delle assicurazioni di malattia a tutti i lavoratori e alle loro famiglie (Germania, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Francia) e, in alcuni contesti, si avviò la costruzione dei servizi pubblici di salute (in particolare ci riferiamo a Gran Bretagna, Svezia e, infine, Italia). Il servizio pubblico di salute, un servizio affidato alla competenza statale, così come lo conosciamo oggi, è da attribuirsi a Lord Beveridge, il primo a proporre, nel 1942 sotto il governo di Winston Churchill, che lo Stato fosse responsabile della salute dei cittadini. La concezione universalistica applicata alla salute nasce in Inghilterra con l’obiettivo di garantire l’accesso diffuso e gratuito all’assistenza sanitaria, a prescindere, così, dalla classe sociale e dall’area geografica di provenienza.
Il principio cardine alla base del Servizio Sanitario Italiano è l’articolo 32 della Costituzione dello Stato repubblicano italiano, il quale sancisce il riconoscimento del diritto alla salute come diritto fondamentale dell’uomo:
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Con questo viene definitivamente messo da parte il ruolo dello Stato come tutore dei poveri e dei malati a favore di uno Stato garante di una più ampia forma di sicurezza sociale, gestita attraverso un sistema di welfare mutualistico, obbligatorio.
Nella Costituzione, all’articolo 117, veniva però anche disciplinata la competenza delle Regioni in materia di sanità pubblica seguendo le linee guida dello Stato:
La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principî fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni: […] beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria ed ospedaliera […]
Il primo problema da contare in questo contesto, però, è che sebbene le Regioni fossero già inserite nella gestione del futuro SSN, di fatto, come entità pubbliche, non vennero instaurate prima del 1970.
Nella Costituzione, quindi, venivano definiti i ruoli dello Stato e delle Regioni nelle materie sanitarie, ma non veniva prevista la creazione di un Servizio Sanitario Nazionale.
L’organizzazione sanitaria rimase, pertanto, pressoché immutata per altri trent’anni: basata sul sistema delle Casse mutue, ereditate dal regime fascista.
Il sistema mutualistico prevedeva l’accesso garantito alla degenza gratuita solamente a chi era iscritto ad un ente mutualistico o a chi era iscritto alle liste comunali degli indigenti, mentre la restante popolazione era obbligata a provvedere autonomamente a spese mediche e ospedaliere. Questo sistema seguiva una logica che, seppur sotto il controllo statale, era di carattere privatistico per cui ognuno pagava il servizio richiesto ed era distante da una concezione solidaristica della salute. Le mutue, oltre ad avere come unica finalità l’assistenza sanitaria, inoltre, comportandosi quindi come veri e propri istituti assicurativi, non erano per nulla efficienti dal punto di vista economico. La spesa sanitaria complessiva degli enti mutualistici italiani arrivò a 70 miliardi di lire nel 1948, a 91 nel 1950 e a 124 nel 1952.
I limiti del sistema basato sulle mutue riguardavano due ambiti:
- Una diversificazione del sistema in canali diversi e disomogenei e di conseguenza una scarsa qualità e la frammentarietà del servizio, differente per ogni categoria lavorativa e non unitaria come, invece, previsto dalla Costituzione;
- La mancanza di un’organizzazione sanitaria capace di tutelare la salute sotto tutti gli aspetti della vita, andando oltre le sole prestazioni mediche.
Il sistema delle mutue, quindi, era limitato all’offerta di mezzi curativi con il pagamento o il rimborso di singole prestazioni mediche richieste dall’assistito e non preveda azioni preventiva o di controllo.
La seconda metà degli anni Sessanta fu una fase di intenso di battito, com’è noto, che contribuì al consolidamento della necessità di riformare radicalmente il SSN. Maturazione, quest’ultima, della stagione di movimenti di quel periodo. Il tema della salute risultava centrale e connesso alle più generali istanze di cambiamento e trasformazione strutturale della società su cui questi si focalizzavano. All’interno dei movimenti, delle associazioni e dei collettivi veniva promossa una visione integrata e unitaria della salute, fisica e psichica, individuale e collettiva, e che manteneva un legame indissolubile con il territorio e la comunità.
Il dibattito politico attorno alla riforma strutturale del Sistema sanitario iniziò già negli anni Cinquanta, con la proposta della CGIL[1] di istituire un SSN (CGIL, 1959), che fece anche il Pci con il disegno di legge che presentarono nel 1965. La seconda metà degli anni Sessanta fu una fase di intenso dibattito che contribuì al consolidamento della necessità di riformare radicalmente il sistema sanitario e che cominciò ad essere recepita anche dagli organi esecutivi. Alle proposte dei partiti e della CGIL si affiancarono le elaborazioni e le pratiche maturate nella stagione dei movimenti e in cui il tema della salute era centrale e connesso alle più generali istanze di cambiamento e trasformazione strutturale della società (Giorgi, Pavan 2019).
Questa concezione politica della salute e della medicina metteva in discussione il rapporto tradizionale tra medico e paziente e proponeva un’organizzazione sanitaria periferica e decentrata, attenta alla medicina preventiva e che prevedeva un coinvolgimento della popolazione nella sua gestione.
La proposta che porto all’istituzione del SSN venne predisposta dal IV Governo Andreotti e ottenne l’approvazione definitiva nel dicembre del 1978, con un iter iniziato con il voto alla Camera del giugno dello stesso anno e che ha visto la convergenza tra gli esponenti della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, nel solco del Compromesso Storico. Il modello che venne preso come punto di riferimento era il National Health Service inglese, ovvero un modello solidaristico strutturato in base ai bisogni di salute e la compartecipazione al pagamento in base al reddito. Con la Legge 833/1978 venne istituito il nuovo Servizio Sanitario Nazionale, articolato su tre livelli. Il primo livello era lo Stato, cui spettava la definizione sia degli aspetti giuridici che operativi, di indirizzo e di coordinamento delle attività in materia sanitaria; questo per garantire il rispetto dei principi di uguaglianza e di diritto alla salute per l’intero terr itorio nazionale. Le Regioni costituivano il secondo livello, queste erano autonome dal punto di vista gestionale, ma non finanziario. I compiti affidati alle Regioni erano quelli di programmazione e di attuazione del SSN, ovvero gli aspetti organizzativi e di articolazione dell’assetto della sanità regionale. Il terzo livello, quello locale, vedeva protagonisti i comuni, che controllavano e gestivano le USL, le Unità Sanitarie Locali, responsabili dell’organizzazione di base dei servizi sanitari. Il loro bacino di utenza doveva comprendere una porzione di popolazione tra le 50.000 e le 200.000 persone
Il finanziamento del sistema doveva avvenire tramite il Fondo sanitario nazionale (Fsn), definito in sede di bilancio dal governo centrale che avrebbe distribuito i fondi alle Regioni e che a loro volta li avrebbero assegnati alle Usl. Le strutture private non vennero eliminate, anzi in alcuni casi, quelli in cui era necessario provvedere a un’integrazione del servizio pubblico regionale, venne data loro la possibilità di convenzionarsi con strutture pubbliche.
Negli anni 80 si mostrarono i primi limiti del nuovo assetto organizzativo, in primis per quanto riguardava gli aspetti finanziari relativi ai diversi livelli di governo. Partiamo dal presupposto che nel 1979 il Ministero della Salute venne a Renato Altissimo, esponente del Partito Liberale Italiano e politicamente contrario alla riforma sanitario del 1978. Questo provocò delle difficoltà nell’attuare provvedimenti generali, a favore di decisioni su questioni particolari e non inserite in un quadro unitario di intervento (Luzzi 2004, Ferrera 2006). Le Regioni, per le questioni relative la sanità, cominciarono a mettere in discussione il governo centrale e a rivendicare maggiore autonomia. Le questioni sanitarie sono state uno dei principali motori del processo di decentramento italiano che si è manifestato in due differenti forme: una resistenza passiva all’attuazione delle iniziative politiche del governo centrale; e l’orientamento della Corte costituzionale, che ha più volte accolto dei ricorsi presentati dalle Regioni contro il governo centrale. La marcata variabilità interregionale, dovuta sia a fattori sociali e demografici propri di ogni territorio che a scelte politiche differenti, in termini organizzativi e di utilizzo delle risorse, ha origine in questi anni.
A livello periferico, inoltre, un altro dei limiti della riforma fu la sovrapposizione dell’Assemblea Generale di ogni Usl con il consiglio comunale della città di competenza dell’ente. Questo ebbe due conseguenze: in primo luogo impedì totalmente la partecipazione e l’avvicinamento della società civile a questi enti, e in secondo luogo diede il via a un processo di lottizzazione partitica che coinvolse la maggior parte degli organi direttivi delle Usl. Questi organi direttivi erano spesso affidati non sulla base delle competenze, ma in base all’appartenenza politica.
In questo modo, le Usl, crearono negli anni seguenti ingenti disavanzi di gestione, sia per l’assenza di controlli sulle spese di questi enti, sia per l’incompetenza delle diverse direzioni.
Tra il 1992 e il 1993 inizia una seconda fase di riorganizzazione della sanità italiana, con l’approvazione di due decreti legislativi, il 502/92 e il 517/93, che perseguivano tre obiettivi per il Ssn, nel rispetto dei principi universalistici della riforma del 1978: la decentralizzazione del sistema tramite la sua regionalizzazione, la trasformazione delle modalità di finanziamento e l’avvio di un processo di aziendalizzazione del sistema sanitario. Da un lato, gli amministratori regionali speravano che il decentramento portasse una maggiore legittimazione del loro livello di governo, ancora poco definito e percepito come distante dai cittadini. Dall’altro lato, sia il governo centrale che il Parlamento erano ben disposti a trasferire poteri e responsabilità nell’ottica di intraprendere politiche di austerità e razionalizzazione in campo sanitario all’indomani di Tangentopoli, di cui la sanità era uno dei principali focolai dello scandalo. In questo modo avrebbero distribuito le responsabilità riguardo delle decisioni impopolari (Maino 2001; Maino e Neri 2011).
Gli aspetti centrali del decreto stabiliscono che ad ogni Regione viene riconosciuto il compito di programmare e organizzare i servizi assistenziali, a discapito dei comuni, mentre lo Stato manteneva competenza esclusiva in materia di linee programmatiche e di obiettivi definiti a livello nazionale. Le Usl smettono di essere strutture operative dei comuni e diventano enti regionali e vengono trasformate in Aziende sanitarie locali, le Asl, dotate di autonomia gestionale e personalità giuridica con delle regole di gestione economica uguali a quelle di una qualsiasi altra azienda, con una sola peculiarità: l’obbligo di chiudere in pareggio il bilancio annuale. Le Asl hanno le caratteristiche di un ente pubblico, perché dotate di autonomia patrimoniale, contabile e imprenditoriale, ma con un’impostazione aziendale che gli consente di organizzarsi autonomamente. Questa trasformazione ha permesso il superamento di un modello organizzativo di tipo politico-rappresentativo, insostenibile dopo lo scandalo di Tangentopoli, con uno di tipo tecnico-aziendalistico.
A cambiare furono anche gli organi decisionali: quelli delle Usl vennero eliminati del tutto e al loro posto vennero collocati dei Direttori generali, affiancati da un direttore sanitario e uno amministrativo, nessuno nominato, in teoria, in virtù dell’appartenenza politica. Rispetto al numero delle precedenti Usl, il numero delle Asl diminuì passando da 650 a 228, cui si aggiunsero 90 aziende ospedaliere, mentre il bacino medio di utenza di ogni Asl era di circa 252.000 persone contro le 87.000 di ogni Usl(Luzzi 2004, Reviglio 1999).
Le Asl furono autorizzate a fornire agli utenti i servizi necessari producendoli in proprio o acquistandoli da altre strutture, pubbliche o private, che avessero proceduto all’accreditamento e rispondessero a determinati requisiti. Non si impose un limite al numero di strutture accreditabili e questa decisione venne delegata alle singole Regioni. Due esempi emblematici sono la Lombardia e l’Emilia-Romagna:
- In Lombardia, si accreditarono tutte le strutture mediche presenti sul territorio creando una situazione con una pluralità di soggetti erogatori, pubblici e privati accreditati, che cominciarono a operare in competizione tra loro. Le Asl furono sostanzialmente svuotate della loro funzione di erogatore di servizi e di programmazione, per rimanere un organo per lo più incaricato di svolgere la funzione di “terzo pagante”.
- In Emilia-Romagna il modello si orientò verso il contenimento dei costi con una forte guida da parte della Regione. Ogni Asl scese i propri fornitori con cui contrattava il prezzo, la quantità e la qualità dei servizi. La libertà di scelta dei pazienti era minore che in Lombardia, perché era il medico di base a indirizzare gli utenti verso gli erogatori scelti dalle Asl di appartenenza, così come era minore la competizione tra strutture pubbliche e strutture private (Ferrera 2006).
Un ulteriore elemento di carattere generale fu l’inserimento della facoltà, per la popolazione, di ricorrere alla assistenza privata per le prestazioni mediche, ma non limitata alle prestazioni aggiuntive rispetto a quelle offerte dal Ssn. Quindi, quest’ultima, diventava potenzialmente sostitutiva del sistema pubblico.
Viene inoltre introdotta una modifica sostanziale per le Aziende Ospedaliere in quanto viene abolita la dotazione di fondi calcolata sulla spesa storica e viene sostituita dal meccanismo del rimborso a prestazione basata su un tariffario ROD (Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi), elaborato sul modello americano del Diagnosis Related Group (DRG).
L’ultima riforma degli anni Novanta è quella del 1999 guidata dal Ministero della salute presieduto da Rosy Bindi durante il governo Prodi. La riforma Bindi, provò a restituire centralità al tema della solidarietà tra le Regioni tramite una rinnovata importanza al Piano sanitario nazionale (Psn, di durata triennale, predisposto dal Governo su proposta del Ministro della salute tenuto conto delle proposte provenienti dalle Regioni; viene adottato con Decreto del Presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, d’intesa con la Conferenza unificata), lasciato da parte dalle misure degli anni precedenti, che ha favorito le Regioni economicamente più solide creando profonde differenze a livello nazionale. La riforma Bindi affidava nuovamente ai comuni un ruolo più incisivo, senza diminuire le responsabilità delle Regioni. L’aumento di responsabilità dei comuni aveva la finalità di valorizzare la dimensione del distretto sanitario, circoscritto e più vicino ai cittadini rispetto alle Asl, e doveva assicurare l’assistenza primaria, coordinare l’attività dei medici di base con la guardia medica e l’attività dei servizi ambulatoriali e specialistici del proprio territorio.
Veniva stabilito che i pazienti potessero scegliere liberamente il loro medico e pediatra di base e venne introdotto l’Indicatore di situazione economica e sanitaria (Ises), altrimenti conosciuto come “sanitometro”, ovvero un indicatore che misurava l’importo che i cittadini avrebbero dovuto pagare per alcuni dei servizi del Ssn, variabile in base al reddito, alla patologia e all’età (Luzzi 2004).
L’ultimo, ma non meno importante provvedimento, riguarda il regime di esclusività per i medici che lavorano nel servizio pubblico. Questi avrebbero dovuto decidere, entro la metà del marzo del 2000, tra il lavoro nel settore pubblico e la libera professione in quello privato. Si trattava di una scelta non revocabile e per coloro che sceglievano il pubblico era previsto un incentivo economico con un aumento retributivo e la possibilità di esercitare la libera professione nelle strutture pubbliche. La convenienza fu tale che circa l’85% dei medici (Mapelli 2000) scelse l’esclusività con il Servizio sanitario nazionale. Questa misura fu fortemente contestata, e dopo numerosi tentativi, nel 2004, il governo di centro destra riuscì a modificare la non revocabilità della scelta, permettendo ai medici di scegliere ogni anno dove operare, se intra o extramoenia.
Analizzano la storia del nostro SSN vediamo che il modello dell’assicurazione volontaria venne abbandonato a favore del modello dell’assicurazione sociale al momento del crollo del regime fascista, il passaggio al Servizio sanitario nazionale avvenne nel 1978 in un’Italia economicamente sofferente a causa dello shock petrolifero del 1973, in piena crisi istituzionale e politica e che usciva da un decennio di fermento sociale; le riforme del ’92 e del ’93 furono approvate negli anni di Mani Pulite e della fine della Prima repubblica. Questi punti di biforcazione hanno reso possibili dei cambiamenti strutturali che forse non si sarebbero presentati altrimenti.
Le possibilità di cambiamento dipendono da un mix istituzionale specifico di ciascun paese e non dalla sola volontà politica di un esecutivo o di un determinato gruppo di interesse, proprio per la complessità del sistema sanitario in termini organizzativi, valoriali e di interessi economici. La ricostruzione storica è necessaria per comprendere come si configura attualmente il Servizio sanitario nazionale e ne restituisce la complessità. Questo vale in particolare per il processo di regionalizzazione, che sempre di più sta mostrando i suoi limiti.
L’architettura del Ssn si organizza su due livelli di governo politico, lo Stato e le Regioni, e un livello di gestione locale, le Asl (Mapelli 2012). Il primo livello, quello statale, vede il Ministero della Salute ricoprire un ruolo centrale di coordinamento. Tra i compiti più importante c’è la definizione dei Lea, i Livelli essenziali di assistenza ossia l’elenco delle prestazioni che il Servizio sanitario nazionale garantisce a tutti gli assistiti. Le Regioni sono tenute a garantire questo insieme di servizi essenziali, ma possono decidere di integrarli e aggiungere delle prestazioni finanziate con risorse proprie. Ad essere escluse dai Lea sono tutte quelle prestazioni che non hanno come fine ultimo la tutela della salute, come la chirurgia estetica, oppure le cure non convenzionali.
Al primo livello il Ministero della salute è affiancato da alcuni organi nazionali, come il Consiglio superiore di sanità che ha finalità consultive, l’Istituto superiore di sanità che si occupa di ricerca scientifica, l’Agenzia italiana del farmaco che regola la filiera farmaceutica, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali che affianca il Ministero nella valutazione dei servizi sanitari regionali e la Conferenza Stato-Regioni, che non si occupa solo di questioni sanitarie ma è l’organo di giuntura tra lo Stato e le Regioni e in cui vengono discussi i criteri di ripartizione dei fondi.
Il secondo livello è quello regionale, dove le Regioni e le province autonome definiscono l’assetto organizzativo e la programmazione dell’assistenza sanitaria. La valutazione dei servizi erogati dalle strutture accreditate, quindi pubbliche ma anche private, è in capo alle Regioni.
I sistemi sanitari regionali seguono una propria struttura in base alle decisioni in merito a quattro questioni centrali:
- le dimensioni e il numero delle Asl e, di conseguenza, il numero di persone afferenti ad ognuna di esse;
- la collocazione degli ospedali sotto il controllo e la gestione diretta delle Asl o la trasformazione di questi in aziende ospedaliere autonome. Mapelli (2007,2012) individua quattro modelli istituzionali:
- Integrato, in cui più del 66% dei posti letto ospedalieri rimane sotto il controllo delle Asl, che favorisce il legame tra cure ospedaliere e territoriali;
- Separato, per cui tutti gli ospedali sono sottratti dal controllo delle Asl;
- Quasi – integrato, che vede i posti letto ospedalieri sotto il controllo delle Asl oscillare tra il 40 e il 66% del totale;
- Quasi-separato, in cui la Asl controlla solo tra il 20 e il 40% dei posti letto (la Lombardia è l’unico esempio in Italia di modello separato, infatti il 98% degli ospedali è collocato fuori dalle Asl);
- la quantità di servizi e prestazioni affidate a fornitori privati. Il Lazio e la Lombardia sono le due Regioni che maggiormente esternalizzano servizi a dei soggetti privati. Il 42,1% della spesa sanitaria regionale per la Lombardia, e il 40,3% nel Lazio, sono impegnati nei finanziamenti di strutture convenzionate o accreditate (Dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2012);
- la ripartizione della spesa regionale tra cure ospedaliere e territoriali (di cui parleremo più avanti).
Le diversità tra i sistemi regionali derivano, oltre che dai fattori di contesto come la cultura, la storia e lo sviluppo socioeconomico, dalle scelte politiche portate avanti in ambito sanitario. Il rendimento del servizio sanitario è determinato anche dalla capacità fiscale delle Regioni e il percorso che ha portato al raggiungimento del pareggio di bilancio tramite i piani di rientro stipulati tra il governo centrale e le amministrazioni regionali. Il mancato raggiungimento del pareggio di bilancio avrebbe comportato un commissariamento della gestione dei sistemi sanitari, come avvenne per il Lazio e l’Abruzzo nel 2008, la Campania e il Molise nel 2009 e la Calabria nel 2010 (Toth 2014).
Il quadro che emerge è quello di un profondo divario tra le Regioni del centro e del nord del paese con quelle del Mezzogiorno (frattura che non si presenta solamente in ambito sanitario). Per cogliere il grado di differenziazione dei sistemi sanitari regionali, si riporta il lavoro di mappatura e raffronto proposto Bertin et al. (2013) dove presentano una classificazione delle Regioni secondo un approccio tipologico e seguendo due dimensioni classificatorie: la governance e il grado di mix pubblico-privato, sia sul piano del finanziamento che dell’erogazione dei servizi.

Il terzo livello, locale, rappresentato dalle Aziende sanitarie e dalle Aziende ospedaliere, è l’ultimo. Le aziende territoriali, le Asl, devono garantire nel concreto i servizi inclusi nei Lea, sia direttamente che esternalizzandone alcuni tramite il pagamento di fornitori esterni. Sostanzialmente, le Asl si occupano dell’assistenza sanitaria collettiva negli ambienti di vita e di lavoro e dell’assistenza distrettuale, dove devono procedere all’integrazione tra i servizi territoriali e l’accesso dei cittadini ai servizi loro garantiti (Simoni 2011). Le Aziende ospedaliere (AO) erogano, per lo più, le cure specialistiche, quindi hanno la funzione di produzione e assistenza ospedaliera.
Analizzando i diversi modelli organizzativi delle Asl, Simonetta Simoni (2011) individua due idealtipi di funzionamento. Il primo è il modello funzionale, in cui ogni specialità è separata dalle altre per la rigida divisione del lavoro e i problemi di salute vengono atomizzati e risolti singolarmente. Il secondo è il modello divisionale, in cui la struttura organizza il coordinamento e il lavoro d’equipe per l’utente, in quanto i suoi problemi vengono considerati come multidimensionali.
Nella maggior parte delle Asl convivono entrambi i modelli a seconda delle strutture e delle aree di appartenenza, nonostante vi sia una tendenza generale ad abbandonare la logica funzionale a favore di quella divisionale (Simoni 2011). Ma questa tendenza, che non è uniforme a livello nazionale e neanche nei diversi territori regionali, non risolve uno dei principali problemi che si riscontrano nel funzionamento del Servizio sanitario nazionale: la mancanza di raccordo tra i professionisti della salute sul territorio e l’isolamento dei medici di famiglia (Milillo, Panti, Mazzeo 2008).
Le recenti politiche di austerità, adottate alla luce della recessione economica del 2009, hanno interessato tutto il settore pubblico, compreso quello sanitario. Ad oggi il Ssn conta 37 miliardi di euro in meno di finanziamento, 25 dei quali tagliati tra il 2010 e il 2015, durante i governi Berlusconi e Monti (Fondazione Gimbe 2019). L’Italia è l’unico paese europeo dove la quota di spesa pubblica pro-capite decresce nell’arco temporale dalla crisi, mentre negli altri paesi aumenta.
Le misure di austerità hanno perseguito i seguenti obiettivi: (1) la razionalizzazione della spesa farmaceutica; (2) la riduzione dei posti letto e del tasso di ospedalizzazione; (3) la ridefinizione delle tariffe di riferimento per le prestazioni specialistiche ambulatoriali; (4) la razionalizzazione della spesa per l’acquisto di beni e servizi; (5) l’aumento delle entrate mediante l’incremento della compartecipazione alla spesa dei cittadini; (6) una diminuzione del personale sanitario, che tra il 2009 e il 2015 si è ridotto del 5,8%.
La crisi economica e la fase di austerità che ne è conseguita, hanno avviato due tendenze apparentemente contraddittorie. Da una parte emerge una parziale ricentralizzazione del processo decisionale in materia sanitaria, sia come effetto di vincoli esterni provenienti dalle indicazioni delle istituzioni europee, sia con il controllo statale e i piani di rientro per quelle Regioni con forti disavanzi sanitari, per lo più meridionali, che hanno visto forti limitazioni alla loro autonomia. Dall’altra, le Regioni che sono riuscite a mantenere un equilibrio di bilancio hanno consolidato, e in alcuni casi rafforzato, l’autonomia delle politiche sanitarie regionali, ne sono un esempio le riforme strutturali del sistema lombardo, o di quello toscano. Alcune di queste Regioni, in particolare la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna, hanno anche richiesto maggiore autonomia in materia sanitaria, così come in altri settori, evidenziando la volontà di adottare un assetto dei poteri orientato in senso federale (Neri e Mori 2017, p. 217). Alla luce di queste considerazioni, è lecito domandarsi quanto il Servizio sanitario nazionale sia effettivamente equo e accessibile, soprattutto in un paese come l’Italia, in cui alcune disuguaglianze persistono, mentre altre aumentano, soprattutto con la crisi economica.
L’equità del finanziamento è garantita dal fatto che buona parte di esso derivi dalla fiscalità generale, ma Toth (2014) individua due elementi che mettono in discussione questo principio: i ticket, ovvero la compartecipazione alla spesa degli utenti per le prestazioni sanitarie di cui usufruiscono, e la spesa privata, composta dalle assicurazioni volontarie ma soprattutto dalla spesa out-of-pocket ovvero le spese private dei cittadini. Secondo le statistiche sulla salute del 2017 (OCSE 2019) la media europea delle spese a diretto carico del paziente è del 15,8% sulla percentuale complessiva della spesa sanitaria, mentre quella italiana è del 23,5%, quindi più alta. Il 40% delle spese out-of.pocket in Italia sono per le spese ambulatoriali, che comprendono le cure odontoiatriche e il 30% è rappresentato dai prodotti farmaceutici, le altre spese impegnano percentuali minori, come quelle per i ricoveri o per l’assistenza residenziale. Le assicurazioni sanitarie private, invece, hanno un ruolo marginale, perché coprono solamente il 2% della spesa sanitaria totale (State of Health in the EU 2019).
Per quanto riguarda il controllo democratico, i cittadini dovrebbero avere degli strumenti per esercitarlo. Dal punto di vista formale, i cittadini hanno come unico strumento le elezioni regionali, visto che i direttori generali delle Asl vengono nominati dalla giunta regionale e ad essa devono rispondere. L’ultimo principio è la proprietà pubblica dei fattori di produzione e l’unicità di gestione dei servizi. I servizi finanziati dal Ssn sono erogati per due terzi da fornitori pubblici e per un terzo da privati; se guardiamo al complesso del sistema di erogazione delle cure, il privato ne eroga il 49% e il pubblico il 51%. Questo ci permette di notare come il Ssn sia pubblico per quanto riguarda il finanziamento, ma misto per ciò che riguarda la produzione di beni e servizi sanitari.
Il Servizio sanitario italiano garantisce dal punto di vista normativo la copertura universale e l’accesso alle cure a chiunque si trovi sul territorio nazionale, tuttavia considerando il divario esistente tra il quadro politico ufficiale e la realtà sociale emergono diverse aree di fragilità che mettono in discussione la sua equità. Il primo elemento di fragilità è la compartecipazione alla spesa da parte degli utenti per le prestazioni sanitarie, ovvero i ticket sanitari. Esistono delle regole per le esenzioni dal pagamento del ticket basate sul reddito secondo una normativa che presenta numerose incongruenze e che provoca disparità di trattamento. Ad esempio, a parità di reddito una persona disoccupata, ovvero che ha perduto il lavoro, è esente, a differenza dell’inoccupato, che non ha mai lavorato (Dirindin, 2011).
La seconda sfera di fragilità riguarda i tempi di attesa per le visite mediche. Secondo l’indagine di CREA Sanità del 2017, i tempi di attesa nel pubblico continuano a crescere e prendendo in considerazione 11 diverse prestazioni sanitarie in 8 Regioni, l’attesa è in media di 60 giorni[2], a fronte di 9 nel regime di intramoenia, 7 nel privato e 39 nel privato convenzionato.
Secondo i dati Censis del 2017, dieci milioni di italiani hanno dichiarato che negli ultimi anni è aumentato il loro ricorso al settore privato a causa dei tempi di attesa troppo lunghi e per il fatto che metà delle prestazioni analizzate nello studio hanno un costo maggiore nel pubblico, con il pagamento del ticket, che nel privato. Questa situazione crea delle storture importanti per un sistema sanitario che si dice universalistico, perché coloro che non possono permettersi di pagare privatamente la spesa della prestazione sanitaria di cui si necessita, sono costretti ad attendere mesi prima di accedervi. In Italia oltre 12 milioni di persone hanno dovuto rimandare o rinunciare a una prestazione sanitaria durante l’anno a causa di problemi economici.
La spesa out-of-pocket italiana è molto alta rispetto a quella degli altri paesi europei ed è quasi totalmente a carico dei cittadini, vista la bassa intermediazione di assicurazioni private, fondi sanitarie e mutue. La spesa a carico dei cittadini è più alta nelle Regioni del Sud Italia piuttosto che in quelle del Nord, e se a prima vista questo dato può stupire, in realtà è la diretta conseguenza di un sistema sanitario fortemente differenziato, dove le Regioni meridionali ha una spesa sanitaria pubblica procapite inferiore e liste di attesa più lunghe. Nelle Regioni del Sud Italia, il 2,8% delle famiglie risulta impoverita per le spese sanitarie out-of-pocket, contro l’1,1% del Centro e lo 0,4% del Nord-est. In Italia è presente un fenomeno di “povertà sanitaria”, intesa come la condizione in cui versano coloro che non riescono ad accedere alle cure mediche di cui necessitano, per ragioni legate al reddito ma non solo, e che il Servizio sanitario nazionale non riesce a garantire.
Per meglio avere chiaro il concetto di “regionalismo differenziato” dobbiamo però capire la base del finanziamento alle singole Regioni e il suo funzionamento.
Fino a metà degli anni 90’ il finanziamento dei servizi è stato garantito da una imposta di scopo (il cosiddetto contributo di malattia), il quale aveva sostituto, senza soluzione di continuo, i premi/contributi pagati ante riforma delle mutue. Il gettito era, poi, integrato da trasferimenti che provenivano dalla fiscalità generale il tutto a formare il già citato FSN (Fondo Sanitario Nazionale).
Il contributo di malattia, nel 1997, è stato sostituto dall’IRAP (Imposta Regionale Sulle Attività Produttive) e da altre compartecipazioni minori inaugurando il processo che ha portato al federalismo (dottrina politico-economica volta a instaurare una proporzionalità diretta fra le imposte riscosse da un certo ente territoriale [Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni] e le imposte effettivamente utilizzate dall’ente stesso). L’introduzione dell’IRAP, infatti, costituisce una pietra miliare nel processo di regionalizzazione, prima, e di devoluzione federalista dello Stato Italiano, dopo: per la prima volta circa il 50% delle risorse per il SSN furono direttamente attribuite alle Regioni. Tale cambiamento ha automaticamente ridotto il FSN.
Con il d.l. 56/2000 il FSN veniva definitivamente abolito e si stabiliva una compartecipazione delle Regioni all’Iva per finanziare i loro SSR.
Oggi, quindi, il SSR è finanziato e garantito essenzialmente dal gettito dell’IRAP, dalla compartecipazione all’IVA, dalle entrate proprie del SSR (tra cui la compartecipazione dei cittadini alla spesa) e da altre entrate minori quali le quote di accise e addizionali regionali IRPEF.
Tutto questo ha implicato modifiche importanti nella seconda fase del finanziamento delle Regioni, deputata a ripartire le risorse tra le Regioni stesse. Questa operazione, in origine gestita centralmente, trasferiva delle risorse del FSN alle Regioni in modo diversificato solo in misura limitata. Il passaggio alla seconda fase, a metà degli anni ’90, ha parzialmente cambiato il meccanismo: trattandosi ormai di una integrazione statale alle risorse regionali, venivano trasferite risorse aggiuntive con l’obiettivo di compensare le entrate proprie e garantire a ogni Regione la copertura del fabbisogno espresso dalla popolazione regionale.
Il passaggio al federalismo, implicando la possibilità di una autonomia regionale, ha, però, reso necessaria l’introduzione nella riforma costituzionale dell’istituto del Fondo di Perequazione (strumento che mira a mitigare le diseguaglianze tra Regioni i cui abitanti presentano differenti capacità fiscale, al fine di garantire gli stessi standard di prestazione nell’erogazione dei servizi di competenza, nonostante gli squilibri economico-sociali: il fondo è istituito senza vincolo di destinazione ed è finanziato da quote di entrate tributarie): grazie a esso si determina un meccanismo di trasferimenti “orizzontali” fra le Regioni, basato sul principio dei cosiddetti costi standard, che coniugano efficienza e funzioni equitative.
Per completezza, va detto che il processo non è peraltro ancora pienamente applicato: il riparto regionale rimane di fatto legato al meccanismo del riparto negoziato fra le Regioni in base agli specifici fabbisogni delle popolazioni residenti (o meglio presenti).
La negoziazione avviene sulla base di criteri che sono stati modificati più volte durante la vita del SSN, alternando quattro principali riferimenti: la spesa storica, il dimensionamento dell’offerta, la numerosità della popolazione e il bisogno rappresentato dalla popolazione cosiddetta “pesata” per l’età della popolazione. Il risultato è una popolazione che può essere inferiore, uguale o superiore alla popolazione reale in funzione di come giocano i criteri di pesatura addottati. Si parla di quota capitaria pesata, in quanto il peso di ciascun abitante differisce da uno in funzione di come si combinano i suddetti criteri.
L’età è di fatto il criterio attualmente quello vigente, costituendo anche la base per la determinazione dei costi standard ai sensi del D. lgs. n. 68/2011. In altri termini, per determinare la quota di risorse spettanti a ogni Regione si opera in modo proporzionale non alle teste residenti, ma alle teste pesate in base al loro livello di bisogno (o meglio fabbisogno): quest’ultimo viene attribuito sulla base di indicazioni del Ministero della Salute, e di altre agenzie, che forniscono i pesi per singola voce assistenziale (ospedaliera, specialistica, medicina di base, etc.), elaborandoli con i propri sistemi informativi.
Si noti che l’attribuzione delle risorse regionali avviene in realtà in due step successivi:
- Prima vincolando quota parte delle risorse sui cosiddetti LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), ovvero Assistenza Collettiva nei luoghi di vita e di lavoro, Ospedaliera e Territoriale (vedi tabella);
Quindi, all’interno di ogni singolo LEA (per quello Territoriale in verità si agisce per sotto-voci, quali Farmaceutica, Specialistica, Medicina di Base, altra Assistenza) avviene poi il riparto fra le Regioni, sulla base dei pesi sopra descritti, in funzione degli accordi che intercorrono tra le Regioni stesse (negoziazione).

Su questo quadro di finanziamento dobbiamo tenere in conto che la programmazione sanitaria regionale viene fatta senza sapere a quanto ammonterà il totale delle risorse che verranno finanziate (il piano regionale è stilato prima della ripartizione). Da questo possiamo distinguere alcune diversità nei modelli applicativi regionali con due casi paradigmatici:
- Regioni con un proprio PSR vigente (in diversi casi si tratta di Piano Socio Sanitario) che, usualmente, definisce sia gli obiettivi di salute, sia le modalità organizzative e istituzionali per realizzarli. In tale scenario le norme di ripartizione dei fondi alle Aziende rappresentano per lo più la mera quantificazione delle risorse esplicitamente o implicitamente ritenute necessarie al raggiungimento degli obiettivi di piano;
- Regioni sprovviste di un PSR vigente, per le quali le delibere di ripartizione dei fondi di fatto finiscono per identificare gli obiettivi specifici e quantitativi da raggiungere. In questi casi le norme di finanziamento assumono una importanza strategica evidente.
Questi due modelli di programmazione sanitaria rappresentano anche un diverso modo di intendere il ruolo di coordinamento della Regione e, in definitiva, una diversa importanza attribuita alla funzione di programmazione sanitaria.
L’accordo Stato-Regioni, quindi, definisce la destinazione dei fondi in 3 Livelli Essenziali di Assistenza (LEA): il 5% destinato all’assistenza collettiva, il 44% all’assistenza ospedaliera, il 51% all’assistenza territoriale.
In realtà questo vincolo non è sempre seguito dalle Regioni. Ciò può dipendere da una incapacità di spostare significativamente le risorse verso il territorio, come previsto dalle indicazioni nazionali: alcune Regioni hanno intrapreso con molto ritardo i percorsi di organizzazione della rete ospedaliera, continuando così a registrare un’incidenza della spesa ospedaliera superiore rispetto alla spesa territoriale (esempio: la Regione Abruzzo). Va considerato che i differenti criteri di vincolo delle risorse possono essere anche dovuti a obiettivi e specificità regionali: in Sardegna, ad esempio, la veterinaria, compresa nell’assistenza collettiva, ha un peso maggiore della media, giustificando un maggiore assorbimento di risorse. Contiamo, inoltre, che in alcune Regioni parte del fondo è trattenuto a monte per essere spostato altrove a scopo pareggiare altri bilanci (p.e. in Piemonte).
Le differenze riscontrate pongono comunque la questione della cogenza dei vincoli di destinazione. Si aggiunga che, sebbene il riparto fra i LEA rispetti, orientativamente, le indicazioni del citato Accordo in Conferenza Stato-Regioni, analizzando il riparto tra le voci all’interno di ciascun LEA si registra una elevata variabilità regionale, soprattutto per quanto riguarda l’assistenza territoriale. Il fenomeno è in larga misura correlato ai criteri di standardizzazione dei bisogni, ma anche alle diversità delle voci prese in considerazione.
Volendo tentare una sintesi, potremmo delineare i seguenti approcci Regionali:
- Modello a spesa storica, che resiste implicitamente, pur non indicato quale criterio fondante nelle DGR (Delibera di Giunta Regionale) di ripartizione. La definizione degli obiettivi di salute implica semplicemente un aggiustamento di quanto fatto l’anno precedente, come a volte si desume dal riferimento nelle norme alla spesa dell’anno precedente rivalutata, per lo più riproposta come tetto massimo di spesa;
- Modello misto, in cui l’individuazione di alcuni obiettivi (e quindi dei programmi) viene associata al mantenimento dei livelli storici di offerta;
- Modello per obiettivi, in cui la loro definizione viene negoziata fra livello regionale e aziendale e le risorse sono definite prevedendo modifiche, anche sostanziali, dei livelli di offerta.
Come nell’analisi all’inizio sui vari SSN, anche in questo caso la demarcazione non è così netta, ma è utile per dare a grandi linee un’idea dei problemi e/o difficoltà derivanti da ciascun modello.
Negli ultimi anni si registra una tendenza delle politiche sanitarie ad implementare le cure primarie, in quanto ritenute uno strumento strategico per migliorare la presa in carico complessiva del paziente sul territorio. Guardando ai diversi testi di programmazione sanitaria, è difficile non trovare dei riferimenti alle cure primarie, alla continuità assistenziale e alla necessità di implementare una visione integrata della sanità e del territorio. Tuttavia, il concreto processo di riorganizzazione e valorizzazione delle cure primarie e territoriali procede in maniera fluida e discontinua, senza una programmazione coordinata a livello regionale e nazionale e basata sull’effettiva analisi dei bisogni di salute della popolazione (ISTUD 2013).
Negli anni hanno cominciato ad emergere diverse sperimentazioni di medicina di gruppo e associativa. Attualmente, i MMG, così come i Pediatri di Libera Scelta e i Medici di Continuità Assistenziale, possono scegliere di lavorare in uno studio singolo o in altre tre forme di medicina associativa:
- la medicina in associazione, in cui dai 3 ai 10 medici, e i corrispettivi studi, sono distribuiti sul territorio di un dato distretto e non sono vincolati ad un’unica sede;
- la medicina di rete, simile alla medicina in associazione ma con la condivisione della rete informatica, in modo tale da consentire l’accesso alle informazioni dei pazienti e il coordinamento con le altre strutture sanitarie territoriali;
A proposito della medicina in associazione, la riforma Balduzzi del 2012 ha introdotto una distinzione tra le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT), composte da soli medici, e le Unità Complesse di Cure Primarie (UCCP), che prevedono la presenza del personale infermieristico, ostetrico, riabilitativo insieme ad operatori sociali. Queste unità hanno l’obiettivo di offrire soluzioni assistenziali e organizzative multiprofessionali e che riescano ad intercettare e rispondere ai diversi bisogni di salute presenti sul territorio, così da risultare come una valida alternativa al Pronto Soccorso. Le sperimentazioni di associazionismo medico si stanno realizzando con tempistiche e formule organizzative diverse a livello nazionale.
Nonostante le evidenze a favore dei vantaggi della medicina di gruppo e associativa, in Italia prevale ancora la modalità solo practice, in cui il medico libero professionista presta le proprie attività sul territorio ma nello studio singolo. Inoltre l’approccio nei confronti del Medico di Medicina Generale è reattivo e non proattivo e preventivo. Questo vuol dire che si fa riferimento al medico nel momento in cui si ha un problema specifico, il che è normale quando non ci sono programmi di medicina di iniziativa. Inoltre, molte delle medicine di gruppo sono più degli aggregati formali in cui ogni medico segue i suoi pazienti, che delle strutture territoriali che offrono un servizio che va oltre la sola cura delle malattie.
Individuare il settore delle cure primarie e territoriali come strategico non implica solamente un maggior drenaggio di fondi verso l’assistenza primaria, ma deve prevedere la presa in carico della persona, non della malattia, e questo avviene grazie all’implementazione di tre aspetti:
- La multidisciplinarietà, quindi la collaborazione tra diversi professionisti della salute;
- L’integrazione socio-sanitaria, quindi il lavoro congiunto e coordinato con gli operatori sociali;
- Il coinvolgimento dell’utenza, quindi lavorare con maggior contatto e interazione con il territorio e con chi vi abita.
Bibliografia per la parte sui finanziamenti:
- Zocchetti, Statistica & Società, Anno 1, N.3
- Volume FIASO, I sistemi di finanziamento regionali delle Aziende Sanitarie e Ospedaliere, Febbraio 2015
- Minstero della Salute, http://www.salute.gov.it/
[1] Confederazione Generale Italiana del Lavoro
[2] 60 giorni è la media dei giorni di attesa di tutte le prestazioni prese in considerazione, guardando ad alcuni specifici interventi i giorni di attesa medi crescono in maniera rilevante. Ad esempio, per una colonoscopia la media di giorni di attesa è 112 giorni.